Cartomanzia e cecità
Per ora dobbiamo fermarci e accamparci, perché si sta facendo buio.
È notte fonda, non riusciamo a vedere niente. Altri sensi si acutizzano come l’udito, l’olfatto.
Qualcuno sta pensando a Fineo, al re della Tracia che perseguitato dalle Arpie, mandategli dagli dei, è reso cieco perché aveva predetto il futuro all’umanità. Sulla sua storia ci sono diverse versioni. Ma una cosa ci colpisce: la sua cecità.
Anche Tiresia, ne parla Omero nell’Iliade, fu reso cieco perché gli dei non volevano che profetizzasse.
Polimestore non diventa divinatore dopo che Eucuba lo acceca per vendicare la morte dei suoi figli?
Sembra che la cecità sia il terreno fertile perché alcune doti possano fiorire, come quella della divinazione.
La possibilità di vedere qualcosa che non è tangibile.
Qualcuno viene punito e reso cieco perché profetizza, qualcun altro acquista il dono della divinazione dopo.
L’indovino vede, ascolta in un altro modo perché ha perso la vista.
In questo bosco, nella notte fitta, altri sensi si acutizzano.
Non succede lo stesso agli indovini?
Affinano la capacità di saper ascoltare il linguaggio divino e d’interpretarlo. Hanno la capacità d’intendere per poi rivelarlo agli esseri umani. Perché prima del parlare c’è l’ascoltare e l’indovino è l’uomo dell’ascolto. Esistono tante forme di ascoltare: con le orecchie della mente e con quelle del cuore.
Non insegna Ermes a interpretare il linguaggio? Sembra necessario che manchi qualcosa per poter parlare, chiedere direttamente alle divinità.
Non posso parlare con tutte le mie facoltà. Allora, gli dei hanno pietà quando qualcuno perde la vista a causa di altri esseri umani. Ma viene causata anche da loro stessi se si intende sfidarli. Perché si ha osato entrare nell’arcano, nell’occulto, nel mistero nascosto.
Se gli indovini non sono ciechi, come parlano? Attraverso degli strumenti: foglie d’oro come nella cultura egizia (oggi sono le carte), le polveri, i fondi del caffè, le tessere del domino, i bastoncini…
Si usano cose fisiche, materiali per connettersi con l’immateriale; la perdita della vista per connettersi con l’invisibile.
L’indovino, badate bene, non è un posseduto. Infatti parla attraverso oggetti.
Per comunicare con l’intelligenza superiore, abbiamo bisogno della psiche, delle facoltà intellettive, qualcosa che vada oltre il sensoriale. E’ molto interessante perché le carte o i bastoncini sono oggetti. Possiamo toccarli, vederli.
Ma la percezione dell’indovino va oltre il mezzo: il sopra e il sotto che si uniscono. Il cartomante apre il mazzo delle carte, le rivela ma non le sceglie. Lui stesso è strumento. L’indovino interpreta e non solo le carte. È attento a tutti i segni perché per lui niente è un caso.
Infatti, l’arte che insegnava Ermes era quella di andare oltre le apparenze.
Per il cartomante, l’alchimista o l’indovino i fenomeni non sono solo qualcosa di naturale e la natura è qualcosa di più che un insieme di elementi. Tutto importa, segni e sogni. Il cielo non è qualcosa che sta lì, sopra di noi. Dal cielo, l’imperatore cinese riceve il suo mandato. Gli astri non stanno lì sospesi per abbellire l’azzurro tappeto. Il sopra e il sotto stanno in armonia, non c’è una scissione.
La divinazione, come abbiamo detto nel primo articolo, era un atto sociale che investiva tutta la vita delle persone, la loro salute ma anche regolava la vita civile, ossia il diritto.
Cartomanzia e cecità
L’esperienza della vita è apprendimento e, l’apprendimento si condivide, la responsabilità del nostro esserci. L’apprendimento è un tesoro che seguirà il suo proprietario ovunque, dice un proverbio cinese.
La bellezza della nostra esistenza, di quello che siamo, in un rapporto armonico con tutti e con il tutto. E spesso chi va dal cartomante questo non lo sa.
È lui il cieco della propria storia, della sua quotidianità. Non riesce a vedere, a interpretare né a comprendere. E’ nel buio totale.
Proprio come Alba (La casa degli spiriti, di Isabel Allende), dove il suo indovino è Miguel: “Per la prima volta nella sua vita, Alba sentì il bisogno di essere bella rimpianse che nessuna delle splendide donne della sua famiglia le avesse lasciato in eredità i suoi attributi, e l’unica che l’aveva fatto, la bella Rosa, le aveva dato solo una sfumatura d’alga marina ai suoi capelli, che, se non era accompagnata da tutto il resto, sembrava piuttosto un errore del parrucchiere. Quando Miguel indovinò la sua inquietudine, la portò per mano fino al grande specchio veneziano che ornava un angolo della camera segreta; tolse la polvere dal vetro incrinato poi accese tutte le candele che aveva e gliele mise intorno. La sua pelle illuminata dalle candele, aveva il colore irreale delle figure di cera. Miguel cominciò ad accarezzarla e lei vide trasformarsi il suo volto nel caleidoscopio dello specchio e convenne infine che lei era la più bella dell’universo, perché aveva potuto vedersi con gli occhi con cui la vedeva Miguel“.
infine che lei era la più bella dell’universo, perché aveva potuto vedersi con gli occhi con cui la vedeva Miguel”.