Flora Dee e Divinazione
Nell’Almanacco del 28 aprile, abbiamo parlato dei Floralia, culto pubblico e riti dedicati alla dea della fioritura, dei boccioli, dei vigneti e degli alberi da frutto. La festività durava dal 28 aprile al 3 maggio.
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Una dea romana che divenne nota anche come dea della natura e della primavera.
Sembra che questo culto sia stato introdotto da Tito Tazio che governò con Romolo per alcuni anni. Il suo tempio di trovava vicino a piazza Barberini. Poi, l’imperatore Tiberio consacrò il tempio presso il Circo Massimo.
Un sacerdote, il flamine floreale era il responsabile del culto e la sua festa era alquanto movimentata e licenziosa. Tanto che arrivavano a partecipare delle prostitute e si terminava in orge collettive.
Oltre al Flamine, Flora era invocata anche dagli Arvali, un collegio di dodici sacerdoti, membri delle famiglie patrizie. Questi si dedicavano principalmente al culto di Cerere. Una leggenda racconta che tale istituzione fu voluta da Romolo e all’inizio ne facevano parte i figli del pastore che aveva raccolto e cresciuto il primo re di Roma e il suo gemello.
Infatti, gli Arvali erano detti fratelli.
Il culto di Flora era presente anche presso altri popoli come i Sabini e i Vestini, i quali dedicavano un intero mese al culto della dea, in corrispondenza della mietitura.
Altresì, si hanno testimonianze a Pompei e nella cultura successiva, sia medievale che rinascimentale.
La ritroviamo nella scultura, nella pittura e nella letteratura. Con Calderón de la Barca, per esempio. Addirittura fino al novecento, con il poeta svedese Erik Axel Karlfeldt.
Ricordiamo inoltre che la fondazione della città di Firenze è dedicata a Flora.
Perché gli antichi romani veneravano la dea Flora?
Per assicurarsi i benefici agricoli ed economici.
Così la celebrò Ovidio:
Oggi son detta Flora, ma ero una volta Clori; nella pronuncia latina fu alterata la forma greca del mio nome.
E, Clori, ero una Ninfa delle Isole Fortunate, ove tu sai che felicemente visse gente fortunata.
È difficile alla mia modestia dire quanta fosse la mia bellezza; essa donò a mia madre per genero un Dio.
Si era di primavera, e io me ne andava errando; mi vide Zèfiro, e io mi allontanai; prese a inseguirmi, e io a fuggire.
Ma fu più forte di me.
Borea, come aveva osato prendersi una donna nella casa di Eretteo, aveva dato al fratello ogni diritto di rapina.
Ma Zefiro fece ammenda della violenza dandomi il nome di sposa; non v’è alcun motivo di lamento nel mio letto coniugale.
Io godo di eterna primavera; l’anno è sempre fulgido di luce, gli alberi son ricchi di fronde la terra rivestita di verzura“.
Ovidio, Fasti, V, vv. 195-208